Secondo la Corte di Cassazione con la recente sentenza 2455/2014 non bastano la negligenza, l’imprudenza e l’imperizia del lavoratore per escludere la responsabilità del datore di lavoro. Quest’ultimo è quindi sempre responsabile per l’infortunio del dipendente, anche quando gli fornisce il materiale antinfortunistico e questi non lo utilizza. Secondo la sentenza, il datore di lavoro deve sorvegliare i lavoratori per evitare che operino senza le precauzioni necessarie a garantire la loro sicurezza. Se non lo fa, non può essere esclusa la sua responsabilità.
Di seguito la sentenza:
Fatto
1- La sentenza attualmente impugnata, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Trapani n. 511/06 del 25 maggio 2006:
1) afferma che, dalla dinamica dell’infortunio sul lavoro occorso a A.G. il (omissis) , si può ravvisare un concorso di colpa del lavoratore nella misura del 30%;
2) riduce, pertanto, della suddetta misura percentuale le somme dovute dal datore di lavoro F.V. rispettivamente all’A. e all’INAIL;
3) conferma, per il resto, la sentenza appellata.
La Corte d’appello di Palermo, per quel che qui interessa, precisa che:
a) A.G. , mentre era intento alla realizzazione di un ponteggio per il rifacimento dell’intonaco sottostante ad un viadotto autostradale, precipitò da una altezza di circa sei metri, riportando gravi lesioni che comportarono, tra l’altro, le frattura del bacino e l’amputazione del braccio e dell’avambraccio sinistro;
b) nell’occasione egli si trovava in compagnia di due colleghi di lavoro, che non hanno saputo riferire nulla sulla dinamica dell’infortunio, perché in quel momento erano intenti ad eseguire altri lavori;
c) lo stesso infortunato ha fornito, al riguardo, versioni contrastanti, prima dichiarando di essere scivolato e poi, dinanzi a questa Corte, affermando di essere precipitato a causa della rottura della tavola sulla quale si trovava;
d) è rimasto accertato – come risulta anche dal procedimento penale a carico del F. , definito con decreto penale di condanna – che: 1) il lavoratore non fece uso delle cinture di sicurezza perché quelle in dotazione, essendo munite di una catena di soli cm. 60, erano inidonee allo svolgimento del lavoro di montaggio del ponteggio, che stava eseguendo;
2) le tavole costituenti il piano di calpestio del ponteggio non erano fissate o comunque tenute ferme onde evitare la caduta del lavoratore;
3) tali tavole non erano in perfetto stato di conservazione;
4) i lavori di realizzazione del ponteggio venivano svolti, in assenza della prescritta vigilanza, dal solo A. , nonostante la precarietà delle strutture man mano montate e la pericolosità del lavoro dovuta anche all’altezza in cui veniva svolto;
e) ne consegue che è indubbia la responsabilità del datore di lavoro – qualunque sia la dinamica dell’infortunio – e a tale conclusione porta anche la circostanza che il F. il giorno successivo all’incidente abbia disposto lo smontaggio del ponteggio, in quanto è chiaro che tale condotta fu posta in essere per impedire agli organi preposti di eseguire gli opportuni accertamenti e rilevare eventuali violazioni;
f) tuttavia, alla determinazione dell’evento ha contribuito anche l’A. , che, essendo il lavoratore più esperto “con mansioni di coordinatore degli altri operai”, avrebbe dovuto:
1) prima di salire sul ponteggio, procedere al corretto ancoraggio delle tavole alla struttura;
2) servirsi della scala fornitagli dal datore di lavoro;
3) farsi coadiuvare dagli altri operai nell’esecuzione dei lavori in oggetto visto che si svolgevano all’altezza di sei metri;
g) per quanto si è detto il concorso di colpa del lavoratore va determinato nella misura del 30%, pertanto la maggior somma richiesta in appello dall’INAIL a fronte di ulteriori prestazioni erogate all’infortunato – la cui domanda è ammissibile, potendo l’Istituto precisare, anche in appello, l’originario petitum – deve essere ridotta nella stessa misura suindicata;
h) sui criteri adottati dal Tribunale per la liquidazione dei danni in favore dell’Ama e sulle singole voci di danno liquidate (danno biologico ed estetico, danno morale e danno derivante dalla capacità lavorativa specifica) non è stata mossa dal F. alcuna censura, sicché sul punto si è formato il giudicato interno;
i) deve essere confermata la sentenza di primo grado nella parte relativa al rigetto della domanda con la quale il F. ha chiesto di essere garantito dalla Generali Assicurazioni Danni s.p.a., essendo indubbio che il rifacimento dell’intonaco sottostante ad un viadotto, previa realizzazione di un ponteggio, rientri tra i lavori “inerenti a viadotti” che il contratto di assicurazione, con una clausola di chiara formulazione, escludeva dalla copertura assicurativa.
2.- Il ricorso di F.V. domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi.
Resistono, con controricorso:
1) A.G. , che propone, a sua volta, ricorso incidentale, per due motivi, cui replica il F. con controricorso;
2) l’INAIL, che ugualmente, propone, a sua volta, ricorso incidentale per un motivo;
3) le Assicurazioni generali s.p.a..
F.V. e l’INAIL depositano anche memorie ex art. 378 cod. proc. civ..
Diritto
Preliminarmente tutti i ricorsi devono essere riuniti perché proposti avverso la medesima sentenza.
I – Profili preliminari.
1.- Deve essere, in primo luogo, respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso incidentale dell’Ama proposta dal ricorrente principale – nel proprio controricorso di replica – sul duplice rilievo: a) della mancanza, nella copia notificata, delle pagine finali dell’atto (da pagina 38 in poi); b) dell’assenza degli elementi che consentano di individuare l’origine e l’oggetto della controversia, lo svolgimento del processo e le posizioni assunte dalle parti, nonché della esposizione sommaria dei fatti richiesta, a pena di decadenza, dal combinato disposto degli artt. 366, n. 3, e 371 cod. proc. civ..
1.1.- Con riguardo al primo profilo, va osservato che per costante e condiviso orientamento di questa Corte, ai fini del riscontro degli atti processuali deve aversi riguardo agli originali e non alle copie, per cui l’eventuale mancanza di una o più pagine (nella specie, tre) nella copia del ricorso per cassazione notificata può assumere rilievo soltanto se lesiva del diritto di difesa. Ciò, peraltro, va escluso quando le pagine omesse risultino irrilevanti al fine di comprendere il tenore della difesa avversaria e quando l’atto di costituzione della parte contenga una puntuale replica alle deduzioni contenute nell’atto notificato, comprese quelle contenute nella parte mancante (Cass. SU 22 febbraio 2007, n. 4112, indirizzo consolidato, vedi, fra le tante: Cass. 22 gennaio 2010, n. 1213).
Nel presente caso l’originale del controricorso con ricorso incidentale è completo e le pagine asseritamente mancanti sono, per quanto riguarda le argomentazioni delle censure, soltanto due e, come risulta dalle argomentazioni del controricorso di replica, la suindicata incompletezza non ha minimamente leso il diritto di difesa del F. .
1.2.- Quanto al secondo profilo, si ricorda che, in base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:
a) nel giudizio per cassazione, l’autosufficienza del controricorso (e del ricorso incidentale, nel caso in cui questo risulti proposto) è assicurata, ai sensi dell’art. 370, secondo comma, cod. proc. civ., e dell’art.366, primo comma, cod. proc. civ., anche quando il controricorso, come nella specie, non contenga l’autonoma esposizione sommaria dei fatti della causa, ma si limiti a fare riferimento ai fatti esposti nella sentenza impugnata ovvero alla narrazione di essi contenuta nel ricorso, e ciò anche se il richiamo sia soltanto implicito (Cass. 2 febbraio 2006, n. 2262; Cass. 28 maggio 2010, n. 13140);
b) comunque, anche a volere ritenere che laddove il controricorso racchiuda anche un ricorso incidentale debba contenere, in ragione della propria autonomia rispetto al ricorso principale, l’esposizione sommaria dei fatti di causa, ai sensi del combinato disposto degli artt. 371, terzo comma, e 366, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. – diversamente dal semplice controricorso, che. avendo la sola funzione di contrastare l’impugnazione altrui, non necessita dell’esposizione sommaria dei fatti di causa, potendo richiamarsi a quanto già esposto nel ricorso principale (Cass. 11 gennaio 2006, n. 241) – in ogni caso, sotto il suddetto profilo, il ricorso incidentale è da considerare inammissibile ove si limiti ad un mero rinvio all’esposizione del fatto contenuta nel ricorso principale, mentre il requisito imposto dal citato art. 366 cod. proc. civ. può reputarsi sussistente quando, nel contesto dell’atto di impugnazione, si rinvengano gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni assunte dalla parti, senza necessità di ricorso ad altre fonti (Cass. 8 gennaio 2010, n. 76; Cass. 27 luglio 2005, n. 15672; Cass. 29 luglio 2004, n. 14474).
Ne consegue che, nella specie, è da escludere l’inammissibilità del controricorso del lavoratore contenente il ricorso incidentale perché, diversamente da quanto sostiene il F. , dalla lettura dell’atto risulta che il ricorrente incidentale ha rappresentato i fatti, sostanziali e processuali in modo adeguato a far intendere immediatamente il significato e la portata delle critiche rivolte alla sentenza impugnata senza dover ricorrere al contenuto di altri atti del processo.
II – Sintesi dei motivi del ricorso principale.
2.- Il ricorso principale è articolato in quattro motivi.
2.1.- Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio, in riferimento alla dinamica del sinistro.
Si sostiene che la Corte palermitana sarebbe giunta all’erronea conclusione di addossare al lavoratore solo il 30% della responsabilità del sinistro – anziché la esclusiva responsabilità o comunque una maggiore percentuale di responsabilità – perché dopo avere, contraddittoriamente, assunto come “pacifiche” alcune circostanze del fatto che (invece, non sono state provate), poi, in modo ulteriormente contraddittorio, ha affermato la corresponsabilità dell’A. per non aver proceduto, prima di salire sul ponteggio, al corretto ancoraggio delle tavole della struttura, servendosi della scala fornita dal datore di lavoro e facendosi coadiuvare dagli altri operai nell’esecuzione dei lavori che stava svolgendo.
Ad avviso del F. , le suddette circostanze del fatto, a suo dire, sfornite di prova sarebbero: a) la dipendenza del mancato uso delle cinture di sicurezza, da parte dell’A. , dalla loro inidoneità all’uso, perché essendo dotate di una catena lunga soli cm. 60 non consentivano al lavoratore di effettuare gli spostamenti necessari per eseguire il lavoro di montaggio del ponteggio, cui era intento al momento dell’infortunio; b) il fatto che le tavole costituenti il piano di calpestio del ponteggio non erano fissate o comunque tenute ferme in modo tale da evitare che cadessero; c) il fatto che le tavole stesse non erano in perfetto stato di conservazione; d) il fatto che i lavori di montaggio del ponteggio erano eseguiti dal solo A. senza la collaborazione degli altri operai, nonostante la precarietà della strutture che venivano man mano montate.
Ne consegue che dalla lettura dei due brani della motivazione della sentenza impugnata nei ^ quali vengono, rispettivamente, esaminate le responsabilità del F. e quelle dell’A. nella causazione del sinistro si desumerebbe – data la loro contraddittorietà – che la Corte territoriale ha omesso di individuare l’esatta dinamica dell’infortunio.
Infatti, la Corte non ha appurato se la caduta dell’A. sia stata dovuta ad un accidentale scivolata del piede sulla tavola ovvero alla rottura della tavola stessa, elemento che era fondamentale chiarire.
2.2.- Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 cod. civ..
Si ribadiscono, da altra angolazione, le censure già esposte nel precedente motivo, ponendo l’accento sul fatto che, diversamente da quanto affermato dalla Corte d’appello, il datore di lavoro, rispettando l’art. 2087 cod. civ., aveva fornito ai propri dipendenti tutti i presidi di sicurezza necessari per il tipo di lavorazione in oggetto.
D’altra parte, la Corte palermitana non poteva fondare il proprio convincimento su alcune circostanze contestate al F. nel procedimento penale a suo carico, definito con decreto penale di condanna del Tribunale di Enna, visto che tale atto non può fare stato nel processo civile ex art. 460 cod. proc. pen. e neppure in tale processo hanno efficacia probatoria diretta gli atti raccolti nel suddetto procedimento penale, non conclusosi con una sentenza dibattimentale.
Neanche la Corte territoriale avrebbe potuto ritenere che il F. il giorno successivo all’incidente avesse disposto che il ponteggio dal quale è caduto l’A. venisse smontato al fine di impedire agli organi all’uopo preposti di eseguire gli opportuni accertamenti e rilevare eventuali violazioni alla normativa antinfortunistica.
Infatti, a prescindere dal valore giuridico nullo da attribuire alla suddetta “presunzione di colpevolezza”, comunque è emerso in modo inequivocabile, nella fase istruttoria del giudizio di primo grado, che il ponteggio è stato smontato non per ordine datoriale, bensì per applicazione della prassi abituale secondo cui tutti i venerdì i ponteggi venivano smontati, per timore di furti.
Né possono esservi dubbi sul fatto che l’A. fungesse da caposquadra e avesse maggiore esperienza di tutti gli altri lavoratori del cantiere, avendo nella sostanza la direzione esecutiva del cantiere e degli altri operai.
Infine, secondo il F. , non essendovi alcuna responsabilità del datore di lavoro, avrebbe dovuto essere rigettata anche la domanda di rivalsa dell’INAIL.
2.3.- Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1370 cod. civ., con riferimento al contenuto del contratto di assicurazione, stipulato dal F. con le Assicurazioni generali s.p.a..
Si contesta la decisione della Corte palermitana di rigetto della censura del F. con la quale si impugnava la decisione di primo grado ove ha respinto la domanda di garanzia proposta dal datore di lavoro nei confronti di Assicurazioni generali s.p.a..
Si sostiene che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di primo grado e dalla Corte d’appello, la clausola del contratto di assicurazione di esclusione della copertura per i lavori inerenti ponti, viadotti e gallerie non avrebbe dovuto considerarsi applicabile nella specie, in quanto la lavorazione cui era intento l’A. al momento del sinistro consisteva nella realizzazione di un ponteggio per il rifacimento dell’intonaco sottostante un viadotto autostradale.
Il fatto che l’allestimento del ponteggio avvenisse sotto un viadotto per eseguire futuri lavori di manutenzione dovrebbe portare ad escludere che si trattasse di lavorazione “inerente” al viadotto, perché essa non si svolgeva “sopra” al viadotto – con i conseguenti pericoli – ma al di sotto dello stesso, come attività a sé stante.
2.4.- Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., erronea e/o omessa decisione su un punto fondamentale della controversia, relativamente alla liquidazione del danno e alle sue componenti.
Si censura la decisione della Corte palermitana di avere ritenuto passata in giudicato la parte della sentenza di primo grado relativa ai criteri ivi adottati per la liquidazione dei danni e alle voci liquidate.
Si sostiene che il F. nell’atto di appello aveva contestato la disposta liquidazione del danno biologico posta a carico del datore di lavoro, già compresa nella copertura assicurativa dell’INAIL ai sensi del d.lgs. n. 38 del 2000.
Si sostiene che il F. poteva essere condannato al risarcimento del solo danno morale, essendo intervenuto il decreto penale di condanna a suo carico.
3 – Sintesi dei motivi del ricorso incidentale di A.G. .
3.- Il suddetto ricorso incidentale è articolato in due motivi.
3.1.- Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti, in riferimento alla dinamica del sinistro.
In modo speculare rispetto al F. , l’A. sostiene che la Corte territoriale avrebbe errato ad attribuire il 30% della responsabilità dell’accaduto al lavoratore e che la motivazione della sentenza impugnata adottata sul punto sarebbe viziata, nei suddetti sensi.
Infatti – a parte la dichiarazione resa in ospedale nell’immediatezza del fatto alla Questura di Enna, nella quale il lavoratore ha riferito di essere scivolato dalla tavola sulla quale si trovava – in realtà, dall’istruttoria svolta è emerso con chiarezza che la tavola di appoggio si è spezzata sotto il peso dell’Ama, il quale non indossava la cintura fornitagli perché era munita di una catena troppo corta (circa cm. 60) per potere svolgere il lavoro di costruzione del ponteggio cui era intento al momento dell’incidente e per tale motivo è precipitato nel vuoto da un’altezza di circa sei metri, subendo le gravi lesioni accertate dalla CTU medica.
Il lavoratore stesso, sentito dalla Corte d’appello, ha rettificato l’originaria versione dei fatti, spiegando di averla fornita quando era gravato da intensissimi dolori al braccio lesionato.
Dalla stessa istruttoria è emerso che l’A. aveva inutilmente chiesto al datore di lavoro di fornire agli operai cinture di sicurezza dotate di catene più lunghe di quelle utilizzate e di sostituire i tavoloni di legno (che erano usurati) con pedane di metallo.
In questa situazione la motivazione posta a base del rilevato concorso di colpa del lavoratore sarebbe del tutto contraddittoria, in quanto la Corte, dopo avere individuato una serie di mancanze del datore di lavoro da sole idonee a determinare il verificarsi dell’evento – fornitura di cinture di sicurezza inidonee alle lavorazioni da eseguire, utilizzazione di tavole non perfettamente adeguate, omessa vigilanza dell’esecuzione dei lavori particolarmente pericolosi da svolgere e così via – perviene a configurare il concorso di colpa dell’A. facendo riferimento a tre ulteriori elementi inidonei al suddetto fine.
La Corte, infatti, sottolinea che, essendo l’A. , il lavoratore più esperto, con mansioni di coordinatore degli altri operai, avrebbe dovuto: 1) prima di salire sul ponteggio, procedere al corretto ancoraggio delle tavole alla struttura; 2) servirsi della scala fornitagli dal datore di lavoro; 3) farsi coadiuvare dagli altri operai nell’esecuzione dei lavori in oggetto visto che si svolgevano all’altezza di sei metri.
Tuttavia la stessa Corte, con riguardo alle tre suddette circostanze, non considera che: 1) l’ancoraggio delle tavole non avrebbe impedito che la tavola sulla quale si trovava il lavoratore si spezzasse, tanto più che sembra che la tavola spezzata fosse ben posizionata, ancorché non agganciata, non essendo previsti sistemi di aggancio delle tavole con elementi di ferro del ponteggio; 2) l’eventuale utilizzazione della scala in dotazione – peraltro, di altezza insufficiente a raggiungere i sei metri – non avrebbe potuto influire sul verificarsi dell’evento, perché il lavoratore è caduto quando ormai si trovava sul piano di lavoro e non nell’atto di salire per raggiungerlo; 3) l’organizzazione del lavoro era determinata dal F. e non era nella disponibilità di un dipendente distrarre altri colleghi dalle mansioni loro assegnate per altre operazioni, comunque un maggiore peso sul tavolone sul quale si trovava l’A. (dovuto alla ipotetica presenza di colleghi) avrebbe facilitato e non certo impedito la rottura del tavolone stesso.
Ad avviso dell’Ama, la motivazione della sentenza impugnata non è solo contraddittoria e illogica, per quanto si è detto, ma è anche insufficiente, visto che la Corte palermitana non ha spiegato le ragioni che l’hanno indotta a ritenere che i suddetti tre elementi avrebbero potuto impedire il sinistro o influire sulle sue conseguenze, sì da giustificare il concorso di colpa del lavoratore.
3.2.- Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione delle seguenti disposizioni: art. 2087 cod. civ.; art. 4 del d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547; artt. 10, 16, 17, 23, 38 e ss. del d.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164; artt. 2049 e 2050 cod. civ.; artt. 3, 4, 21, 22, 35, 36, 37, 40 e ss. del d.lgs. n. 626 del 1994.
Si sostiene che la Corte palermitana abbia deciso questioni di diritto in modo non conforme alla giurisprudenza di legittimità, senza offrire elementi validi per giustificare il proprio dissenso.
In particolare, si fa riferimento all’attribuzione all’A. di un ruolo e di una funzione diverse da quelle sue proprie di semplice muratore.
Si rileva che dalla circostanza che il F. quando era assente dava le direttive all’A. , come dipendente più anziano, non si poteva desumere che questi fosse responsabile della sicurezza.
Si sottolinea, altresì, che la Corte d’appello non ha attribuito il dovuto rilievo al fatto che il datore di lavoro non aveva predisposto alcuna vigilanza per l’esecuzione dei lavori e l’uso delle cinture di sicurezza, né aveva fatto frequentare ai dipendenti dei corsi di formazione sui rischi del lavoro e neppure aveva previsto dei piani di sicurezza adeguati.
Del resto, i ponteggi sono per loro natura strutture pericolose e come tali avrebbero dovuto essere trattati, invece nella specie non è stata adottata alcuna misura volta a garantire i lavoratori dal rischio di cadute, nella fase di montaggio delle impalcature.
L’A. aveva fatto precise richieste al riguardo,che però non sono state prese in considerazione dal F. .
Comunque, è da escludere che la condotta del lavoratore, anche se imprudente, possa configurare un’ipotesi di “rischio elettivo” e quindi è da escludere che possa configurarsi un concorso di colpa del lavoratore stesso, anche se esperto, in conformità con la consolidata giurisprudenza di legittimità.
IV – Sintesi del motivo del ricorso incidentale dell’INAIL.
4.- Con il motivo del ricorso incidentale l’Istituto denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione degli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965.
Si contesta il punto della sentenza impugnata in cui la Corte palermitana, dopo aver accertato il concorso di colpa della vittima dell’infortunio sul lavoro determinandolo nella misura del 30%, ha, per questo solo fatto, ridotto, in pari misura, l’ammontare delle somme richieste dall’INAIL in via di rivalsa nei confronti del datore di lavoro dell’infortunato.
Si sottolinea che, nel corso del giudizio, non vi era stata alcuna contestazione sugli importi richiesti dall’Istituto, né era stato allegato o provato che si trattava di somme di importo superiore al danno conseguibile dal lavoratore infortunato.
Peraltro, il capo della sentenza di primo grado relativo alla determinazione di tali somme non era stato impugnato, sicché almeno la somma capitale non avrebbe potuto essere ridotta, pur in presenza del concorso di colpa del lavoratore.
V – Esame dei primi due motivi del ricorso principale e dei ricorsi incidentali di A.G. e dell’INAIL.
5.- Per le ragioni di seguito esposte, il ricorso principale è da respingere, mentre sono da accogliere i due ricorsi incidentali.
Inoltre, per chiarezza espositiva, appare opportuno esaminare per primi i primi due motivi del ricorso principale e, a seguire, il ricorso incidentale dell’Ama e quello dell’INAIL e, infine, gli ultimi due motivi del ricorso principale.
6.- Sia i primi due motivi del ricorso principale sia i due motivi del ricorso incidentale dell’Ama contestano – da opposte prospettive – la sentenza impugnata nella parte relativa alla ricostruzione dell’infortunio e in particolare alla valutazione del comportamento del lavoratore, che ha portato la Corte palermitana ad affermare che la condotta colposa dell’A. avrebbe concorso nella misura del 30% al verificarsi del sinistro.
In estrema sintesi:
1) il ricorrente principale sostiene che la Corte palermitana, in applicazione dell’art. 2087 cod. civ., avrebbe dovuto attribuire al lavoratore la esclusiva responsabilità o comunque una maggiore percentuale di responsabilità della causazione del sinistro e che, comunque, la motivazione sul punto sarebbe contraddittoria o carente in quanto la Corte territoriale ha omesso di appurare se la caduta del lavoratore è stata determinata da una accidentale scivolata del piede sulla tavola dove lavorava ovvero dalla rottura della tavola stessa;
2) il ricorrente incidentale A. , specularmente, afferma che, in applicazione del medesimo art. 2087 cod. civ. e delle altre norme antinfortunistiche richiamate la Corte d’appello avrebbe dovuto considerare le accertate mancanze del datore di lavoro – fornitura di cinture di sicurezza inidonee alle lavorazioni da eseguire, utilizzazione di tavole non perfettamente adeguate, omessa vigilanza dell’esecuzione dei lavori particolarmente pericolosi da svolgere e così via – idonee da sole a determinare il verificarsi dell’evento, mentre è pervenuta, con motivazione contraddittoria e carente, a configurare il concorso di colpa dell’Ama facendo riferimento a tre ulteriori elementi – mancata effettuazione del corretto ancoraggio delle tavole al ponteggio prima di salirvi, non utilizzazione della scala fornita dal datore di lavoro, mancata richiesta di collaborazione agli altri operai nell’esecuzione dei lavori in oggetto visto che si svolgevano all’altezza di sei metri – del tutto inadeguati al suddetto fine.
7.- In linea generale, deve essere ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicché le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 18 ottobre 2011, n. 21486; Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; Cass. 13 gennaio 2011, n. 313; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).
Infatti, la prospettazione da parte del ricorrente di un coordinamento dei dati acquisiti al processo asseritamente migliore o più appagante rispetto a quello adottato nella sentenza impugnata, riguarda aspetti del giudizio interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti che è proprio del giudice del merito, in base al principio del libero convincimento del giudice, sicché la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, primo comma, numero 5, cod. proc. civ., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. 20 giugno 2006, n. 14267; Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707; Cass. 13 luglio 2004, n. 12912; Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965; Cass. 18 settembre 2009, n. 20112).
7.1.- Nella specie il Giudice di appello – sulla base della valutazione del materiale probatorio – ha accertato che: 1) l’A. , al momento del sinistro era intento alla realizzazione di un ponteggio per il rifacimento dell’intonaco sottostante ad un viadotto autostradale; 2) è precipitato da una altezza di circa sei metri, riportando gravi lesioni che comportarono, tra l’altro, le frattura del bacino e l’amputazione del braccio e dell’avambraccio sinistro; 3) nonostante la non coincidenza delle versioni sulla dinamica del sinistro fornite dall’interessato (rispettivamente alla Questura di Enna durante il ricovero ospedaliero successivo al sinistro e poi in sede giudiziaria), ciò che conta è che è comunque rimasto acclarato – anche dal procedimento penale a carico del F. , definito con decreto penale di condanna, dai cui atti si possono attingere elementi di giudizio, in base all’orientamento costante di questa Corte (vedi, da ultimo, Cass. 26 novembre 2013, n. 26401) – che: a) il lavoratore non fece uso delle cinture di sicurezza perché quelle in dotazione, essendo munite di una catena di soli cm. 60, erano inidonee allo svolgimento del lavoro di montaggio del ponteggio, che stava eseguendo; b) le tavole costituenti il piano di calpestio del ponteggio non erano fissate o comunque tenute ferme onde evitare la caduta del lavoratore; c) tali tavole non erano in perfetto stato di conservazione; d) i lavori di realizzazione del ponteggio venivano svolti, in assenza della prescritta vigilanza, dal solo A. , nonostante la precarietà delle strutture man mano montate e la pericolosità del lavoro dovuta anche all’altezza in cui veniva svolto.
Sulla base di tali elementi la Corte palermitana, con congrua motivazione, ha affermato la responsabilità del F. , così facendo corretta applicazione dell’art. 2087 cod. civ. e della normativa antinfortunistica antecedente il d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, da applicare nella specie.
In base a tale normativa, infatti, in caso di esecuzione di opere di montaggio o smontaggio delle impalcature trovano applicazione sia la norma generale dell’art. 10 del d.P.R. n. 164 del 1956 – che, in riferimento a qualsiasi opera che esponga i lavoratori a rischi di caduta dall’alto, impone l’utilizzazione della cintura di sicurezza debitamente agganciata qualora non sia possibile disporre di impalcati di protezione o parapetti – sia l’art. 2087 cod. civ. – che impone l’adozione delle opportune misure antinfortunistiche in caso di situazioni non direttamente contemplate dalla normativa antinfortunistica, ogni volta in cui non sia accertata l’impossibilità di caduta degli operai da qualunque punto del piano di lavoro, per effetto di specifici apprestamenti – sia, infine, l’art. 17 del citato d.P.R. n. 164 del 1956, che impone all’imprenditore o alla persona da lui nominata di provvedere alla diretta sorveglianza dei lavori di montaggio e smontaggio delle opere provvisionali e quindi di impedire, quale destinatario delle norme antinfortunistiche, che i lavoratori operino prima che siano stati predisposti adeguati sistemi per garantire la loro sicurezza (vedi, per tutte: Cass. 11 maggio 2002, n. 6769; Cass. 25 agosto 1995, n. 9000).
8.- Ne consegue che il F. non può certamente dolersi della pretesa illogicità e contraddittorietà della motivazione relativa alla affermazione della Corte palermitana della sussistenza della responsabilità del datore di lavoro per le lesioni riportate dal lavoratore né, tanto meno, della violazione dell’art. 2087 cod. civ. sul punto.
Questo comporta il rigetto dei primi due motivi del ricorso principale.
9.- I suddetti vizi sono, invece, riscontrabili con riguardo alla parte della motivazione nella quale è stato affermato il concorso di colpa del lavoratore, nella misura del 30%.
Per costante orientamento di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità:
a) le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare l’esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento, essendo necessaria, a tal fine, una rigorosa dimostrazione dell’indipendenza del comportamento del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro, e, con essa, dell’estraneità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere (Cass. 10 settembre 2009, n. 19494; Cass. 23 aprile 2009, n. 9689; Cass. 25 febbraio 2011, n. 4656);
b) in materia di prevenzione dagli infortuni sul lavoro, il d.P.R. n. 547 del 27 aprile 1955, con indicazioni che hanno trovato conferma nel sistema delineato dal d.lgs. n. 626 del 19 settembre 1994, prevede una distribuzione di responsabilità ripartita in via gerarchica tra datore di lavoro, dirigenti e preposti, figura, quest’ultima, che ricorre nel caso in cui il datore di lavoro, titolare di una attività aziendale complessa ed estesa, operi per deleghe secondo vari gradi di responsabilità, e che presuppone uno specifico addestramento a tale scopo, nonché il riconoscimento, con mansioni di caposquadra, della direzione esecutiva di un gruppo di lavoratori e dei relativi poteri per l’attribuzione di compiti operativi nell’ambito dei criteri prefissati (Cass. 15 dicembre 2008, n. 29323);
c) peraltro, l’attribuzione a un soggetto della qualità di “preposto” ai fini del suo assoggettamento agli obblighi previsti dall’art. 4 del d.P.R. n. 547 del 1955, va fatta, con riferimento alle mansioni effettivamente svolte nell’ambito dell’impresa e non in base alla formale qualificazione giuridica attribuita (Cass. 16 febbraio 2012, n. 2251; Cass. 6 novembre 2000, n. 1444).
9.1.- Ne deriva che, essendo, pacificamente, da escludere che, nella specie, ricorra l’ipotesi del c.d. rischio elettivo (idoneo ad interrompere il nesso causale, ma ravvisabile solo quando l’attività posta in essere dal prestatore non sia in rapporto con lo svolgimento del lavoro o sia esorbitante dai limiti di esso), gli elementi accertati dalla Corte palermitana in ordine alle mancanze ascrivibili al F. avrebbero dovuto considerarsi da soli sufficiente ad affermarne la esclusiva responsabilità nella causazione del sinistro, in base alla citata normativa, a partire dall’art. 2087 cod. civ..
Per completezza, va precisato che laddove la Corte d’appello ha affermato la sussistenza di un concorso di colpa del lavoratore – oltretutto determinandone la misura nel 30%, senza alcuna giustificazione – non solo si è discostata dall’anzidetta normativa, ma lo ha fatto con motivazione carente e illogica perché basata sul richiamo ad elementi in parte del tutto irrilevanti (come la mancata utilizzazione della scala fornita dal datore di lavoro, visto che l’A. già era giunto sul posto di lavoro al momento del sinistro) e in parte non ascrivibili all’A. , che essendo privo della qualità di “preposto” e della connessa direzione esecutiva dei lavoratori, non poteva sostituirsi al F. nel dare disposizioni in merito all’ancoraggio delle tavole alla struttura ovvero allo svolgimento delle mansioni impartitegli con la collaborazione degli altri operai (data l’altezza di sei metri da terra).
Di qui l’accoglimento del ricorso incidentale dell’A. .
10.- I vizi rilevati in merito all’affermazione del concorso di colpa dell’Ama nella determinazione del sinistro – pari al 30% – si riflettono anche nella parte della motivazione nella quale la Corte palermitana ha ridotto nella medesima percentuale l’ammontare delle maggiori somme richieste dall’INAIL al F. , in via di rivalsa, oltretutto senza previamente determinare, come in qualsiasi altra ipotesi di rivalsa, l’ammontare del danno risarcibile in relazione alla misura dell’accertato concorso di colpa e, quindi, verificare se sulla somma così determinata vi sia capienza per la rivalsa dell’INAIL, procedendo, solo in caso di esito negativo di tale accertamento, a ridurre la somma spettante all’Istituto per le prestazioni erogate all’assicurato (o ai suoi eredi) in modo che la stessa non superi quanto dovuto dal danneggiale, come stabilito dalla costante e condivisa giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis: Cass. 2 febbraio 2010, n. 2350; Cass. 11 dicembre 2001, n. 15633; Cass. 16 giugno 2000, n. 8196; Cass. 3 ottobre 2000, n. 13121; Cass. 20 agosto 1996, n. 7669).
Ne consegue l’accoglimento del ricorso incidentale dell’INAIL.
VI – Esame del terzo e del quarto motivo del ricorso principale.
11.- Per quel che riguarda il terzo motivo del ricorso principale, va ricordato che, in base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:
a) l’interpretazione della volontà delle parti in relazione al contenuto di un contratto o di una qualsiasi clausola contrattuale – che, comporta indagini e valutazioni di fatto affidate al potere discrezionale del giudice del merito, non sindacabili in sede di legittimità ove non risultino violati i canoni normativi di ermeneutica contrattuale e non sussista un vizio nell’attività svolta dal giudice di merito, tale da influire sulla logicità, congruità e completezza della motivazione – può essere censurata per erroneità nel ricorso per cassazione, ma il ricorrente, in applicazione del principio di specificità dei motivi di ricorso, ha l’onere di trascrivere integralmente le clausole contestate in quanto al giudice di legittimità è precluso l’esame degli atti per verificare la rilevanza e la fondatezza della censura e deve, inoltre, precisare quali norme ermeneutiche siano state in concreto violate e specificare in qual modo e con quali considerazioni il giudice di merito se ne sia discostato (vedi, tra le tante: Cass. 18 novembre 2005, n. 24461; Cass. 6 febbraio 2007, n. 2560; Cass. 31 gennaio 2006, n. 2128);
b) in tema di interpretazione del contratto – che costituisce operazione riservata al giudice di merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o per vizio di motivazione – ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 cod. civ. e dovendosi intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (vedi, tra le altre: Cass. 26 febbraio 2009, n. 4670; Cass. 23 aprile 2010, n. 9786; Cass. 29 settembre 2005, n. 19140).
11.1.- Nella specie, la pur parziale trascrizione delle clausole la cui interpretazione è contestata dal F. consente di respingere il motivo in quanto dalle relative argomentazioni si desume ictu oculi che, con esse, più che denunciarsi la mancata osservanza dei criteri legali di ermeneutica contrattuale, si contrappone l’interpretazione proposta dal ricorrente a quella accolta nella sentenza impugnata, oltretutto con argomentazioni in parte erronee e in parte palesemente illogiche nelle quali si sostiene che:
a) la intenzione dei contraenti non dovrebbe desumersi dal “mero senso letterale delle parole”, mentre come si è detto, in base all’art. 1362 cod. civ., come interpretato da questa Corte, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, se di significato inequivoco;
b) la ragione della concordata esclusione della garanzia assicurativa per “i lavori inerenti a ponti, viadotti e gallerie” è stata quella del maggior grado di pericolosità di tali lavori “a causa dell’altezza” nella quale vengono svolti, senza considerare tale elemento caratterizza la presente fattispecie, nella quale il lavoratore si è infortunato cadendo da una altezza da circa sei metri.
Se a tutto ciò si aggiunge che il concetto stesso di “inerenza” non può far sorgere alcun dubbio sull’esattezza dell’interpretazione dei Giudici del merito in ordine alla clausola di cui si tratta, se ne desume il rigetto del motivo de quo.
12.- Il quarto motivo del ricorso principale è inammissibile.
12.1.- A prescindere dal fatto che il tipo di vizio denunciato è configurabile più che come vizio di motivazione, come error in procedendo – prospettabile ai sensi del n. 4 dell’art. 360 e che consente a questa Corte l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito a differenza della censura di vizio di motivazione – va comunque precisato che il suddetto esame presuppone l’ammissibilità del motivo di censura, essendo, quindi, circoscritto al passaggio dello sviluppo processuale in cui il vizio denunciato si colloca onde la Corte possa verificare la fondatezza del motivo di ricorso.
Peraltro la suddetta ammissibilità postula, tra l’altro, il rispetto del principio della specificità della deduzione della censura.
Tale principio – che trova la propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte – vale anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali si denuncino errori da parte del giudice di merito, sicché ove il ricorrente contesti l’interpretazioni che di tali motivi ha dato la Corte d’appello deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi come formulati (vedi, per tutte: Cass. 10 gennaio 2012, n. 86; Cass. 21 maggio 2004, n. 4734).
12.2.- Nella specie, il F. non riproduce nel presente ricorso le parti dell’atto di appello nella quali sarebbe contenuta la propria contestazione della liquidazione del danno biologico in favore dell’Ama, che smentirebbe l’affermazione della Corte palermitana secondo cui si è formato il giudicato interno sul punto.
Ciò impedisce a questo Giudice di legittimità di verificare la fondatezza delle censure formulate al riguardo e determina l’inammissibilità del quarto motivo del ricorso principale.
VII – Conclusioni.
13. In sintesi, il ricorso principale deve essere respinto e i due ricorsi incidentali vanno accolti, la sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Caltanissetta, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati e, quindi, anche ai seguenti:
1) “in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e, in particolare, in caso di esecuzione di opere di montaggio o smontaggio delle impalcature e di lavorazioni che espongano i lavoratori a rischi di caduta dall’alto – cui si collegano sia l’obbligo per il dipendente dell’utilizzazione della cintura di sicurezza debitamente agganciata qualora non sia possibile disporre di impalcati di protezione o parapetti, sia l’obbligo per l’imprenditore o la persona da lui nominata di provvedere alla diretta sorveglianza dei lavori di montaggio e smontaggio delle opere provvisionali e quindi di impedire, quale destinatario delle norme antinfortunistiche, che i lavoratori operino senza adeguati sistemi volti a garantire la loro sicurezza – il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, se non viene specificamente dimostrato che ricorrono tutti gli elementi propri dell’ipotesi del c.d. rischio elettivo. Ne consegue che è da ascrivere all’esclusiva responsabilità del datore di lavoro l’infortunio occorso ad un lavoratore precipitato al suolo mentre era intento alla realizzazione di un ponteggio all’altezza di circa sei metri da terra ove – pur in mancanza di una precisa ricostruzione della dinamica del fatto in tutti i suoi particolari – sia stato accertato, anche attingendo elementi di giudizio dall’esame degli atti anche dal procedimento penale a carico del datore di lavoro definito con decreto penale di condanna, che: a) il lavoratore non aveva fatto uso delle cinture di sicurezza perché quelle in dotazione, erano munite di una catena troppo corta per l’esecuzione del lavoro di montaggio del ponteggio; b) le tavole costituenti il piano di calpestio del ponteggio (ove operava il lavoratore) non erano fissate o comunque tenute ferme onde evitare la caduta del lavoratore stesso; c) tali tavole non erano in perfetto stato di conservazione; d) i lavori di realizzazione del ponteggio venivano svolti, in assenza della prescritta vigilanza, dal lavoratore infortunatosi da solo, nonostante la precarietà delle strutture man mano montate e la pericolosità del lavoro dovuta anche all’altezza in cui veniva svolto”;
2) “in materia di prevenzione dagli infortuni sul lavoro, ai fini della ripartizione di responsabilità stabilita, in via gerarchica, tra datore di lavoro, dirigenti e preposti, la figura del preposto ricorre nel caso in cui il datore di lavoro, titolare di una attività aziendale complessa ed estesa, operi per deleghe secondo vari gradi di responsabilità, e presuppone uno specifico addestramento a tale scopo oltre al riconoscimento, con mansioni di caposquadra, della direzione esecutiva di un gruppo di lavoratori e dei relativi poteri per l’attribuzione di compiti operativi nell’ambito dei criteri prefissati. Ne consegue che non può essere considerato “preposto”, ai suddetti fini, l’operaio più anziano di una squadra, pur dotato di maggiore esperienza rispetto agli altri, ma privo di uno specifico addestramento al ruolo di capo squadra nonché dei poteri di direzione esecutiva dei lavori della squadra stessa”.
P.Q.M.
La Corte riunisce tutti i ricorsi. Rigetta il ricorso principale, accoglie gli incidentali. Cassa la sentenza impugnata, in relazione ai ricorsi accolti, e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Caltanissetta.