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Nella trattazione di edifici storici o di interesse culturale si pensa subito ai musei, alle pinacoteche, a ville e castelli. Esiste un caso molto diffuso, e per certi versi più complesso: i condomini pregevoli. Laddove un edificio residenziale si trova ad essere ricompreso nel campo di applicazione del Decreto Legislativo n. 42 del 22 gennaio 2004, la sua gestione si complica notevolmente, soprattutto a livello impiantistico. La sua gestione infatti è spesso influenzata dai differenti proprietari che, nella stragrande maggioranza dei casi, nulla sanno di legislazione, né tantomeno di rischio elettrico.
La situazione si complica ulteriormente quando, soprattutto nei centri storici, il condominio è costituito non solo da unità abitative residenziali, ma anche commerciali. Con la presenza di personale dipendente (custode, receptionist, personale addetto alla manutenzione, ecc.).
Il quadro legislativo attuale in materia di impianti elettrici è complesso e ha fondamenta che partono da lontano, in alcuni casi con riferimenti normativi che hanno avuto origine negli anni 50 e hanno subito successivi e consistenti interventi di restyling. Volendo restringere l’analisi solamente ai testi che hanno oggi l’impatto più rilevante sulla vita di tutti i giorni è possibile limitarsi alle quattro seguenti disposizioni di legge:
– La legge 1 marzo 1968, n. 186 (Gazzetta Ufficiale Serie Generale n.77, pubblicata il 23 marzo 1968), che enuncia due semplici principi che sono alla base di tutta la legislazione successiva: tutti gli impianti devono essere realizzati a regola d’arte, tutti gli impianti realizzati secondo le norme redatte dal Comitato Elettrotecnico Italiano (CEI) sono a regola d’arte.
– Il decreto 22 gennaio 2008, n. 37 (Gazzetta Ufficiale Serie Generale n.61, pubblicata il 12 marzo 2008), che detta regole fondamentali per l’affidamento dei lavori, quali le caratteristiche delle imprese abilitate, l’obbligo del progetto, la documentazione da rilasciare al termine dei lavori.
– Il decreto legislativo 9 aprile 2008, n.81 (Gazzetta Ufficiale Serie Generale n.101 del 30 aprile 2008 – Supplemento Ordinario n. 108), che si applica esclusivamente ai luoghi di lavoro dove vengono date, tra l’altro, regole per il rispetto della sicurezza in merito a valutazione dei rischi, lavori elettrici e manutenzione nonché prescrizioni specifiche per gli impianti di protezione contro i fulmini ed i luoghi con pericolo d’esplosione.
– Il D.P.R. 22 ottobre 2001, n. 462 (Gazzetta Ufficiale Serie Generale n.6 pubblicata l’8 gennaio 2002) per le verifiche di legge negli ambienti di lavoro.
Le prime due disposizioni legislative si applicano a tutti gli ambienti, di vita e di lavoro, la terza e la quarta solo ad attività con presenza di almeno un lavoratore così come definito all’articolo 3 del DLgs 81/08 e successive modifiche e integrazioni.
Il quadro legislativo, appare già dalla lettura delle date di pubblicazione dei principali documenti, attraversa un lungo arco temporale, proprio come gli edifici storici. La nuova Guida CEI 64-15 si inserisce in questo contesto, cercando di fare chiarezza, specificando ad esempio qual è il ruolo del progettista degli impianti elettrici, come già visto nell’articolo a pagina XXX, definendo deroghe alle condizioni installative previste negli edifici tradizionali e consigliando soluzioni intelligenti per rendere connessi anche gli edifici più datati.

Il “decreto 37/08”
Ferma restando la legge 186/68, mai abrogata, che stabilisce principi più volte ripresi in seguito, e che rimane valido riferimento tutte le volte che leggi e decreti successivi non trovano applicazione, la disposizione di legge chiave è il decreto 22 gennaio 2008, n. 37, che raccoglie l’eredità della legge 46/90, sostituendola e migliorandola.
La Legge 46/90 era stata introdotta per dare regole utili ai fini della sicurezza in materia, tra gli altri, di impianti elettrici negli edifici di civile abitazione ma, all’ultimo momento, il suo campo di applicazione era stato esteso anche agli impianti elettrici installati negli edifici adibiti ad attività produttive, al terziario e ad altri usi. La sua entrata in vigore aveva portato alcune novità piuttosto rilevanti di cui vengono qui ricordate le più importanti. Intanto aveva cominciato col rendere obbligatorio un concetto ovvio: gli impianti elettrici possono essere realizzati solo da elettricisti. O per dirla con le parole del legislatore da un’impresa abilitata, in possesso dei “requisiti tecnico professionali”. Il meccanismo di abilitazione in principio era stato affidato a una commissione insediata presso le camere di commercio di ciascuna provincia, ovvero, per le imprese artigiane, dalle commissioni provinciali per l’artigianato, che esprimevano un parere vincolante. In seguito fu trasformato in quello che è adesso, ossia un riconoscimento formale delle camere di commercio a fronte dell’autocertificazione dei requisiti presentata dalle ditte che richiedevano l’abilitazione.
In un paese dove nelle case di civile abitazione l’impianto elettrico poteva essere fatto da chiunque, dal muratore, al dopolavorista passando per il tuttologo esperto di bricolage era, nelle intenzioni, una specie di rivoluzione. La seconda rivoluzione era legata alla documentazione che sarebbe dovuta nascere insieme all’impianto e avrebbe dovuto vivere e modificarsi, se del caso, insieme a lui, rappresentandolo sempre, fedelmente. Il legislatore si inventò allo scopo un qualcosa che è diventato un totem nell’immaginario collettivo, la “dichiarazione di conformità”, documento attraverso il quale l’installatore che la sottoscriveva dichiarava di avere eseguito un determinato lavoro, seguendo delle norme che era tenuto a specificare.
Con il decreto 20 febbraio 1992 “Approvazione del modello di dichiarazione di conformità dell’impianto alla regola d’arte di cui all’art. 7 del regolamento di attuazione della legge 5 marzo 1990, n. 46, recante norme per la sicurezza degli impianti” il legislatore specificò anche quali fossero gli allegati obbligatori che la ditta installatrice avrebbe dovuto allegare alla dichiarazione. Lo scopo era quello di fare una foto dell’impianto al fine di tutelare tutti, il committente che aveva richiesto un determinato intervento e l’installatore stesso che lo aveva realizzato.
Tra gli allegati obbligatori c’erano il certificato di riconoscimento dei requisiti tecnico professionali, una relazione con la tipologia dei materiali utilizzati, gli schemi dell’impianto realizzato ed il progetto ove richiesto.

Il Progetto
Il legislatore aveva fissato il concetto che l’impianto elettrico, con l’esclusione di quegli interventi che potevano essere ricondotti all’ordinaria e straordinaria manutenzione, doveva essere progettato al di sopra di ben definiti limiti dimensionali.
Anche perché nella legge c’erano oltre a dei buoni propositi anche degli errori, come quello riportato al comma 7. Il legislatore aveva ripreso quanto riportato dalla legge 186/68 – tra l’altro mai abrogata – e aveva ribadito dei concetti già consolidati, finendo però per travisarli:
Legge 46/90 – Art. 7 – Installazione degli impianti
1. Le imprese installatrici sono tenute ad eseguire gli impianti a regola d’arte utilizzando allo scopo materiali parimenti costruiti a regola d’arte. I materiali ed i componenti realizzati secondo le norme tecniche di sicurezza dell’Ente italiano di unificazione (UNI) e del Comitato Elettrotecnico Italiano (CEI), nonché nel rispetto di quanto prescritto dalla legislazione tecnica vigente in materia, si considerano costruiti a regola d’arte.
2. In particolare gli impianti elettrici devono essere dotati di impianti di messa a terra e di interruttori differenziali ad alta sensibilità o di altri sistemi di protezione equivalenti.
3. Tutti gli impianti realizzati alla data di entrata in vigore della presente legge devono essere adeguati, entro tre anni da tale data, a quanto previsto dal presente articolo.
Si fosse fermato al comma 1 non ci sarebbe stato nulla da dire; si trattava di una riedizione degli articoli 1 e 2 della già citata Legge 186 del 1968. Il problema lo introdusse il comma 2, che richiedeva che tutti gli impianti dovevano essere dotati di impianto di messa a terra e che per di più dovevano essere dotati di interruttore differenziale ad alta sensibilità o sistema di protezione equivalente. Ora, nel gergo tecnico, il differenziale ad alta sensibilità era quello caratterizzato da una corrente differenziale nominale minore o uguale a 30 mA.
Così scrivendo il legislatore creava una forzatura rispetto alle norme del coordinamento tra il valore di taratura dell’interruttore differenziale ed il valore misurato dell’impianto di terra. Ad esempio un impianto con resistenza di terra di 100 Ohm che per le Norme CEI avrebbe potuto essere protetto da un differenziale avente corrente nominale pari a 0,3 A, si trovava improvvisamente a non rispondere più ai requisiti indicati dalla 46/90. Ma il problema più grosso era costituito dal numero esorbitante di edifici di civile abitazione, in Italia, completamente sprovvisti dell’impianto di terra. Problema, tra l’altro, ingigantito dal colpo di grazia costituito dal comma tre, che richiedeva l’adeguamento di tutti gli impianti nel giro di tre anni.
Il legislatore ci mise una pezza che non diminuì la confusione, anzi per certi aspetti la aumentò. Poiché la legge rimandava per la sua completa applicazione all’uscita di un suo regolamento attuativo, si affidò a tale provvedimento (D.P.R. 447/91) il compito di riparare i guasti provocati da quei due commi. Ci provò con l’articolo 5 e precisamente con i commi 6 e 8:

DPR 447/91 – Art. 5 – Installazione degli impianti

6. Per interruttori differenziali ad alta sensibilità si intendono quelli aventi corrente differenziale nominale non superiore ad 1A. Gli impianti elettrici devono essere dotati di interruttori differenziali con il livello di sensibilità più idoneo ai fini della sicurezza nell’ambiente da proteggere e tale da consentire un regolare funzionamento degli stessi. Per sistemi di protezione equivalente ai fini del comma 2 dell’art.7 della legge, si intende ogni sistema di protezione previsto dalle norme CEI contro i contatti indiretti.

8. Per l’adeguamento degli impianti già realizzati alla data di entrata in vigore della legge è consentita una suddivisione dei lavori in fasi operative purché l’adeguamento complessivo avvenga comunque nel triennio previsto dalla legge, vengano rispettati i principi di progettazione obbligatoria con riferimento alla globalità dei lavori e venga rilasciata per ciascuna fase la dichiarazione di conformità che ne attesti l’autonoma funzionalità e la sicurezza. Si considerano comunque adeguati gli impianti elettrici preesistenti che presentino i seguenti requisiti: sezionamento e protezione contro le sovracorrenti, posti all’origine dell’impianto, protezione contro i contatti diretti, protezione contro i contatti indiretti o protezione con interruttore differenziale avente corrente differenziale nominale non superiore a 30 mA.

 

Se con il comma 6 il legislatore rimediava all’uso improprio del termine “alta sensibilità” ridefinendolo per gli scopi del presente decreto, con il comma 8 andava in deroga rispetto alle norme di buona tecnica e concedeva uno sconto che si può tradurre come segue.
Se un impianto ad uso civile preesistente alla data di entrata in vigore della legge 46/90 è provvisto della protezione contro i contatti diretti, di un dispositivo di sezionamento e di dispositivi di protezione contro sovraccarico e corto circuito posti all’inizio della linea, allora si considera conforme ai requisiti di legge se è provvisto di un dispositivo di protezione differenziale, con corrente nominale non superiore a 30 mA.
L’intenzione del legislatore appare evidente: introdurre un tempo transitorio all’interno del quale considerare conformi quegli impianti provvisti di una serie di requisiti minimi di sicurezza, anche se inferiori rispetto a quelli stabiliti dalle norme tecniche.
Una volta realizzato questo primo passaggio, che comportava necessariamente un miglioramento del livello di sicurezza, il legislatore aveva immaginato che il secondo passaggio sarebbe avvenuto automaticamente, in occasione degli inevitabili interventi di ampliamento, modifica o rifacimento, anche parziale, degli impianti preesistenti.
In tali occasioni infatti sia la legge 46/90, sia, come si vedrà più avanti, il decreto 37/08 imponevano l’applicazione integrale delle Norme CEI e quindi la realizzazione degli impianti di terra.
Il fallimento del meccanismo di verifica, previsto sulla carta con la legge 46/90 e abortita definitivamente con il decreto 37/08, ha fatto si che l’intenzione originaria del legislatore sia stata spesso e volentieri disattesa tanto che ancora oggi a molti anni dall’entrata in vigore della legge 46/90 esistono ancora molte unità immobiliari sprovviste di impianto di terra.
Vale la pena a questo punto fare ancora una considerazione ulteriore sulla legge 46/90 che riguarda la verifica iniziale dell’impianto a cura e sotto la responsabilità dell’installatore che ha realizzato l’impianto. Anche se il rapporto di verifica è citato dal modello ministeriale che descrive come deve essere la dichiarazione di conformità solamente come allegato facoltativo, il responsabile tecnico dell’impresa installatrice che la sottoscrive dichiara di avere verificato l’impianto avendo eseguito i controlli necessari ai fini della sicurezza. L’installatore pertanto viene di fatto nominato primo verificatore dell’impianto elettrico, circostanza, tra l’altro, utilizzata dal legislatore all’interno del D.P.R. 462/01, che disciplina le verifiche obbligatorie di legge negli ambienti di lavoro.
Negli edifici storici è molto difficile trovare simile documentazione, in quanto realizzati ed elettrificati talvolta molto prima dell’entrata in vigore dei disposti legislativi.
In questo contesto, è interessante osservare come la “denuncia dell’impianto di terra del datore di lavoro” sia sostituita dalla “comunicazione di messa in esercizio”. Tale documento vale come atto di omologazione e deve portare come allegato la dichiarazione di conformità rilasciata dall’installatore che ha realizzato e verificato l’impianto. Tale comunicazione, che attualmente viene richiesta negli ambienti di lavoro, ovvero i condomini con almeno un lavoratore dipendente, molto spesso viene smarrita, ad esempio nel passaggio di mano in mano tra amministratori successivi.
Dal punto di vista tecnico la verifica iniziale consiste nelle operazioni che la Norma CEI 64-8 riporta al capitolo 61 come prime verifiche e che comprendono l’esame della documentazione, l’esame a vista e alcune prove e misure strumentali.
Resta da approfondire come riescano a svolgere correttamente i compiti previsti dalla legge quelle ditte installatrici che non sono in possesso e non usano abitualmente strumentazione di misura; la verifica di questo requisito può costituire uno dei criteri di scelta da parte di quel committente che abbia dei dubbi su come scegliere l’impresa installatrice.
Infine, rispetto alla legge 46/90 si aggiungono gli impianti di alimentazione dei cancelli motorizzati, fino al quadro di comando del cancello stesso che è da considerarsi come equipaggiamento elettrico della macchina. Ancora, rispetto alla 46/90, scompare l’esclusione dal campo di applicazione per gli impianti “all’aperto” che aveva creato qualche problema interpretativo per gli impianti nei cantieri.

Progettazione dei condomini
Secondo il Decreto, è sempre obbligatorio per tutti i lavori d’installazione, trasformazione e ampliamento degli impianti, inclusi gli impianti elettrici. I limiti dimensionali introdotti dalla legge 46/90 sopravvivono, sia pure con qualche differenza, e servono per definire le caratteristiche del soggetto abilitato a firmare il progetto.
Il progetto può essere sempre redatto da un perito o da un ingegnere iscritti nei rispettivi albi e questa condizione diventa un obbligo al di sopra di determinati limiti dimensionali dell’impianto che sono specificati dall’articolo 6 comma 2 che modifica quanto previsto dall’art. 4 del DPR 447/91. Negli edifici pregevoli per arte o storia dice la guida CEI 64-15, il progetto deve essere sempre firmato da professionista iscritto a ordine o albo.
Il concetto di sicurezza non può essere assunto come valore assoluto, ma è figlio del livello di sviluppo della società e quindi del periodo storico in cui viene definito. In Italia il limite di sicurezza accettabile dal dopoguerra a oggi si è evoluto considerevolmente e si è modificato ulteriormente quando si è adeguato agli standard imposti dall’Unione Europea.
In generale, le nuove direttive comunitarie quando vogliono indicare un livello di sicurezza accettabile parlano di “RES”, di requisiti essenziali di sicurezza, mentre il compito di definire come macchinari e impianti debbano soddisfare i “RES” è affidato alle norme armonizzate.
Nel settore elettrico si afferma già dal 1968 una situazione simile, rafforzata dall’entrata in vigore del recepimento delle direttive comunitarie in materia di sicurezza degli ambienti di lavoro, prima con il decreto legislativo 626/94, successivamente, con l’approvazione del testo unico sulla sicurezza, decreto legislativo 81/08 e con l’abrogazione (quasi) definitiva del D.P.R. 547/55. Il requisito enunciato dal legislatore è quello della regola dell’arte e il compito di definire come soddisfare detto principio è affidato alle norme tecniche applicabili.
La dichiarazione di conformità
La dichiarazione di conformità attesta sotto responsabilità dell’installatore che l’impianto è realizzato secondo la regola dell’arte. Nel caso di impianti rifatti parzialmente, la dichiarazione di conformità si riferisce alla sola parte di impianto eseguita, ma in essa deve essere esplicitamente dichiarata la compatibilità con gli impianti preesistenti.
La dichiarazione di conformità deve essere corredata da allegati obbligatori:
– Progetto ai sensi degli articoli 5 e 7;
– Relazione con tipologie dei materiali utilizzati;
– Schema elettrico dell’impianto realizzato;
– Riferimento a dichiarazioni di conformità precedenti o parziali , già esistenti;
– Copia del certificato di riconoscimento dei requisiti tecnico-professionali rilasciato dalle camere di commercio (ufficio registro delle imprese) competente per territorio o delle commissioni provinciali per l’artigianato.
La dichiarazione di conformità è un documento importante come può esserlo il libretto di un’automobile ma anche i documenti spesso non si trovano o vanno smarriti. Le dichiarazioni di conformità degli impianti elettrici molte volte si trovano ma sono prive degli allegati obbligatori, in modo particolare quelle rilasciate a ridosso dell’entrata in vigore della Legge 46/90.
Sono poi numerose quelle andate smarrite negli anni, con impianti che rimanevano nudi, senza uno straccio di schema o planimetria che li descrivesse.
Il legislatore ha preso in carico questo problema introducendo la “dichiarazione di rispondenza”, ovvero quel documento che serve ad attestare che un impianto realizzato prima del 27 marzo 2008 rispetta determinati requisiti di sicurezza.
Va precisato che il decreto nulla dice circa la documentazione che deve essere a corredo di tale dichiarazione.
Tuttavia, poichè la dichiarazione di rispondenza è documento sostitutivo della dichiarazione di conformità logica vuole che sia dotato di tutti gli allegati obbligatori previsti per quest’ultima (progetto, schemi, elaborati grafici, ecc.). Nel caso in cui l’impianto sia stato realizzato prima dell’entrata in vigore della legge 46/90 e non sia presente alcun tipo di documentazione che ne descriva la consistenza il decreto 37/08 non prevede il rilascio della dichiarazione di rispondenza come documento sostitutivo.
Si ricorda che il DPR 392/94, decreto per la semplificazione degli atti amministrativi, prevedeva per l’amministratore (art.6.1) o per il proprietario di unità immobiliari (art. 6.2) la possibilità di autocertificare la rispondenza degli impianti alla normativa vigente per lavori effettuati prima dell’entrata in vigore della legge 46/90.
L’autocertificazione doveva essere fatta con atto notorio e doveva indicare la tipologia di lavori di adeguamento effettuati. Ricapitolando, la “dichiarazione di rispondenza” può essere rilasciata solo per impianti realizzati tra il 13 marzo 1990 e il 26 marzo 2008 (figura 1.5 pag. 29).
Appare in ogni caso opportuno che l’amministratore o il proprietario, in assenza di una documentazione di impianto sufficiente, richiedano ad un professionista una relazione tecnica che descriva lo stato di fatto dell’impianto e, se ne ricorrono le condizioni, ne attesti la rispondenza alla legge 186/68.
Il professionista incaricato potrà avere gli stessi requisiti previsti dal decreto 37/08 per la redazione della dichiarazione di rispondenza.
Nel caso in cui, durante la redazione di una dichiarazione di rispondenza emerga la necessità di adeguare l’impianto alla normativa vigente, il tecnico incaricato dovrà produrre il progetto completo degli elaborati previsti dalla Guida CEI 0-2 incluse le eventuali verifiche di calcolo per le parti di impianto di nuova realizzazione rispetto a quelle che vengono mantenute. Allo stesso modo l’installatore dovrà indicare nella dichiarazione di conformità che i lavori eseguiti sono compatibili con l’impianto

Decreto 37/08 – Art. 7 – Dichiarazione di conformità
6. Nel caso in cui la dichiarazione di conformità prevista dal presente articolo, salvo quanto previsto all’articolo 15, non sia stata prodotta o non sia più reperibile, tale atto è sostituito – per gli impianti eseguiti prima dell’entrata in vigore del presente decreto – da una dichiarazione di rispondenza, resa da un professionista iscritto all’albo professionale per le specifiche competenze tecniche richieste, che ha esercitato la professione, per almeno cinque anni, nel settore impiantistico a cui si riferisce la dichiarazione, sotto personale responsabilità, in esito a sopralluogo ed accertamenti, ovvero, per gli impianti non ricadenti nel campo di applicazione dell’articolo 5, comma 2, da un soggetto che ricopre, da almeno 5 anni, il ruolo di responsabile tecnico di un’impresa abilitata di cui all’articolo 3, operante nel settore impiantistico a cui si riferisce la dichiarazione.

Come abbiamo visto il quadro legislativo per gli impianti elettrici all’interno di un condominio tutelato è piuttosto complesso e gli adempimenti per la gestione dell’edificio non sono mai banali. Una delle prime preoccupazioni di chi gestisce i fabbricati (amministratore, facility manager, ecc.) è reperire la documentazione necessaria all’esercizio degli impianti, missione quasi impossibile per manufatti storici, eretti secoli fa. Tuttavia la nuova Guida CEI 64-15, alla lettura della quale rimandiamo per ogni approfondimento, può rappresentare un utile strumento per impostare una gestione più consapevole e corretta degli impianti.